Terapie riparative: le “cure” per una malattia che non esiste

dott.ssa S. Bosatra   Nel mondo scientifico e accademico è da anni riconosciuta l’infondatezza e la dannosità delle cosiddette terapie riparative, eppure nel dibattito pubblico questi approcci trovano ancora spazio e sostegno: ecco perché nel 2019 continua ad essere importante parlarne. Che cosa sono Le terapie riparative sono approcci che considerano l’omosessualità come una malattia […]

Un primo sguardo all’omogenitorialità

Con l’introduzione delle unioni civili e con l’aspro dibattito politico e sociale in merito alle adozioni omogenitoriali e, nello specifico, alla stepchild adoption, negli ultimi anni anche in Italia si è spostata l’attenzione dell’opinione pubblica sul tema dell’omogenitorialità, ovvero alla funzione genitoriale esercitata dalle coppie gay e lesbiche (Lingiardi e Nardelli, 2014).
A tal proposito mi sembra doveroso sottolineare – come già in passato abbiamo fatto nei nostri articoli – come nell’analizzare un fenomeno non ci si possa fermare unicamente ad un piano personale, ma sia doveroso prendere in considerazione anche – e soprattutto – ciò che la letteratura scientifica internazionale è in grado di dire in merito.

Con questo articolo, vorrei portare all’attenzione dei lettori l’ultimo lavoro di ricerca – in ordine cronologico e di rilevanza scientifica – sul delicato tema dell’omogenitorialità, redatto dalla Dott.ssa Rachel H. Farr, docente di Psicologia dello sviluppo all’Università del Kentucky, e pubblicato nell’ottobre 2016 sulla rivista internazionale Developmental Psychology (Farr, 2016).

Linee guida per pazienti LGB: ne abbiamo bisogno?

L’idea per questo articolo mi è sorta in seguito a un dibattito avuto con alcuni colleghi che aveva come oggetto le “Linee guida per la consultazione e la psicoterapia con persone LGB ” (“Guidelines for Psychological Practice with Lesbian, Gay, and Bisexual Clients”) volute dall’APA (American Psychological Association) e le corrispondenti italiane pubblicate nel saggio dei Dottori Lingiardi e Nardelli: l’interrogativo era se questi documenti siano un qualcosa di necessario e utile per i terapeuti o, al contrario, un qualcosa di ridondante.
Fermo restando che ognuno di noi si occupa di ogni paziente (eterosessuale e non) avendo cura di favorire un setting confortevole e in osservanza del Codice Deontologico, la discussione verteva soprattutto sulle piccole sfumature che occorrerebbe tenere presenti quando si affronta per la prima volta una seduta con un nuovo utente. Non è infatti scontato che chi si rivolge a noi per una consultazione e una eventuale terapia, debba avere per forza di cose un orientamento sessuale eterosessuale.

Dichiararsi a se stessi e agli altri: la sfida del coming-out

Per una persona omosessuale, il coming out rappresenta uno degli atti soggettivamente più rilevanti all’interno del processo di costruzione di una propria identità. La letteratura scientifica e il parlare comune, spesso, utilizzano questo termine con accezioni differenti.
Il termine “coming out” deriva dall’espressione inglese “coming out of the closet”, letteralmente “uscire dal ripostiglio”, e può essere tradotta con il termine “dichiararsi”. Nell’uso di tutti i giorni, questa espressione viene utilizzata per indicare l’atto volontario di una persona omosessuale (o bisessuale) di rivelare ad altri il proprio orientamento sessuale (Lingiardi e Nardelli, 2014). In psicologia e sociologia, tuttavia, con coming out si intende qualcosa di più complesso, che non ha a che fare unicamente con il dichiararsi agli altri, ma prima ancora con il dichiararsi a se stessi; ci si riferisce quindi ad un processo primariamente interiore di scoperta del proprio orientamento sessuale e di costruzione di una identità come persona gay, lesbica o bisessuale.

Deontologia e pazienti LGBT: alcuni spunti di riflessione

Nel presente articolo cercherò di mettere a fuoco alcune specificità che ritengo importanti in relazione alla deontologia professionale di psicologi e psicoterapeuti nel lavorare con pazienti LGBT. Si tratta di riflessioni nate a partire dalla pratica clinica mia e di altri colleghi, condivise poi al fine di costruire un pensiero valido e scientificamente orientato, seppur in un terreno così importante, delicato e soggetto ad interpretazione come può essere quello dell’etica professionale.

Gli atteggiamenti degli Psicologi italiani verso l’omosessualità

Da oltre 40 anni la medicina e la psicologia non considerano più l’omosessualità come una patologia, come già più volte è stato scritto in questo blog e come testimoniano le principali organizzazioni mondiali e nazionali (APA, OMS, CNOP, ecc.). Con il progresso della ricerca scientifica, molti professionisti hanno avuto modo di rivedere le proprie posizioni circa le questioni inerenti gli orientamenti sessuali. Nonostante ciò, alcuni psicologi e psichiatri continuano a non considerare appieno l’omosessualità come “una variante normale della sessualità umana” (APA, 2012): questo ovviamente ha delle notevoli implicazioni sulla società e, in particolar modo, su quei soggetti che si affidano alle cure di uno specialista. Non è mistero, infatti, che ancora oggi vengano messe in atto terapie riparative (1), o comunque interventi terapeutici volti a modificare l’orientamento sessuale dei pazienti, specialmente quando sono proprio questi ultimi a richiedere tali prestazioni come conseguenza di un disagio psicologico, sociale e/o relazionale.

Lesbiche: natura vs cultura

In questo articolo mi propongo di parlare della lettera L dell’acronimo LGBT, ovvero delle lesbiche, dando dapprima la definizione del termine, e procedendo poi sia da un punto di vista storico che da un punto di vista socio-culturale.

I doveri dello psicologo e i diritti dell’utenza: il Codice Deontologico degli Psicologi Italiani

“L’esercizio di una professione comporta per sua natura una serie di dilemmi che il professionista si pone circa l’opportunità, la correttezza, la liceità di talune condotte. Il fatto che l’attività professionale si svolga in un contesto ambientale in cui convivono regole sociali, giuridiche e morali, talora incompatibili, può rendere ardui i processi decisionali conseguenti.” (Calvi e Gulotta, 2012)
Credo che queste parole descrivano in maniera semplice ed efficace la complessità di livelli sottostante la quotidiana pratica professionale. Inoltre, sono ancor più vere quando si pensa all’attività psicologica, che ha come obiettivo principe il benessere della persona che si rivolge al professionista. In questo articolo, che a primo impatto sembra esulare dall’oggetto del blog, cercherò di mettere in luce quegli articoli del Codice Deontologico degli Psicologi italiani (CD) che, a mio avviso, possono avere delle implicazioni rilevanti parlando di orientamento sessuale e di identità di genere, con particolare riferimento alla pratica clinica.

Le bisessualità: oltre la dicotomia etero/omosessuale

Parlare di orientamento bisessuale genera spesso molta confusione, poiché la visione prettamente dicotomica della cultura occidentale tende a considerare la sessualità come esclusivamente etero- o omo-orientata, riducendo la bisessualità ad una sorta di “terra di mezzo” in cui starebbero le persone che non hanno ancora compreso e accettato il loro orientamento eterosessuale o omosessuale. In questo articolo, vorrei portare l’attenzione sulla complessità delle esperienze legate alla sessualità, dal punto di vista affettivo, comportamentale e identitario, per invitare a riflettere sulle diverse varianti della sessualità umana che si discostano dall’esclusiva eterosessualità o omosessualità, ma che sono sentite dalla persona come profondamente autentiche.

“Riparare” l’omosessualità

La comunità scientifica internazionale – si fa riferimento, ad esempio, all’Organizzazione Mondiale della Sanità, all’American Psychiatric Association e all’American Psychological Association (1) – ha ufficialmente dichiarato, ormai da decenni, che l’omosessualità è una variante naturale dell’orientamento sessuale e, come tale, non ha, di per sé, alcuna caratteristica psicopatologica. In altre parole: le persone omosessuali ed eterosessuali si sviluppano, da un punto di vista psicologico, affettivo e relazionale, in direzioni di sanità o patologia del tutto indipendentemente dal loro orientamento sessuale.
Nonostante ciò, esistono ad oggi delle minoranze all’interno del mondo accademico e clinico che sono mosse dall’intento di “curare” le persone omosessuali, e che definiscono i propri interventi “terapeutici”, appunto, terapie riparative. Il mio utilizzare il virgolettato non ha (solamente) una finalità polemica, ma piuttosto un senso contingente: scopo dell’articolo è, infatti, definire in che cosa tali terapie consistono, il loro inquadramento epistemologico, la loro validità a livello sperimentale e la loro sensatezza da un punto di vista di etica professionale.