Linee guida per pazienti LGB: ne abbiamo bisogno?

dott.ssa S. Salvaneschi

L’idea per questo articolo mi è sorta in seguito a un dibattito avuto con alcuni colleghi che aveva come oggetto le “Linee guida per la consultazione e la psicoterapia con persone LGB ” (“Guidelines for Psychological Practice with Lesbian, Gay, and Bisexual Clients”) (1) volute dall’APA (American Psychological Association) e le corrispondenti italiane pubblicate nel saggio dei Dottori Lingiardi e Nardelli: l’interrogativo era se questi documenti siano un qualcosa di necessario e utile per i terapeuti o, al contrario, un qualcosa di ridondante.
Fermo restando che ognuno di noi si occupa di ogni paziente (eterosessuale e non) avendo cura di favorire un setting confortevole e in osservanza del Codice Deontologico, la discussione verteva soprattutto sulle piccole sfumature che occorrerebbe tenere presenti quando si affronta per la prima volta una seduta con un nuovo utente. Non è infatti scontato che chi si rivolge a noi per una consultazione e una eventuale terapia, debba avere per forza di cose un orientamento sessuale eterosessuale.

Inoltre, a mio avviso, la necessità di poter disporre di linee guida accessibili a tutti i professionisti risulta evidente se si tengono in considerazione i risultati del questionario “Atteggiamenti degli Psicologi verso l’Omosessualità” (APO) (2) somministrato agli iscritti degli albi regionali degli psicologi di alcune regioni italiane (Lazio, Campania, Emilia-Romagna, Puglia): gli esiti lasciano infatti intendere che non solo la preparazione sul tema appare carente già durante la formazione universitaria, ma anche che stereotipi e preconcetti sono ancora molto diffusi, incidendo involontariamente sul tipo di approccio che il professionista adotta in seduta.

Lingiardi e Nardelli, nel loro testo “Linee guida per la consulenza psicologica e la psicoterapia con persone lesbiche gay bisessuali” (3), forniscono alcune utili indicazioni di carattere sia generale che specifico che a mio avviso sono da tenere presenti in ogni caso in cui un professionista si approcci ad un nuovo paziente.

Per il professionista psicologo è infatti molto importante non incorrere in modalità eterosessiste o eteronormatve (Lingiardi,  pag. 90): chiedere in seno al colloquio se il soggetto ha una fidanzata/compagna/moglie se è uomo, e un fidanzato/compagno/marito se è donna, lascia intendere che lo psicologo ha una visione binaria della sessualità e potrebbe scoraggiare il paziente nel parlare del proprio orientamento sessuale se non eterosessuale..

Nel documento dell’APA l’invito a tener presente lo stigma sociale e i suoi effetti è esplicito così come il suggerimento dato agli psicologi perché creino le condizioni opportune perché il paziente LGB possa sentirsi accolto e al sicuro, e possa così sviluppare le proprie potenzialità facendo fronte alle difficoltà che il mondo esterno pone, riducendo di conseguenza il minority stress che  può conseguire da eventuali discriminazioni subite in differenti ambiti.

Un altro punto ben sottolineato è quello relativo alla terminologia che, una volta che il soggetto ha dichiarato di essere lesbica/gay/bisessuale, lo psicologo deve evitare: parole come “tendenza” o “preferenza” (Lingiardi pag.90) risultano termini impropri poiché riferite più ai gusti personali che all’identità sessuale, mentre il sostantivo “scelta” sembra riferirsi a qualcosa di opinabile e non ad un dato di fatto quale è l’orientamento sessuale. E’ preferibile dunque parlare sempre di orientamento sessuale per riferirsi alla sfera emotivo-affettiva e sessuale del paziente.

Lo stesso concetto, pur diversamente espresso, è contenuto anche nelle linee guida APA, al secondo punto, dove il professionista è chiaramente invitato a prendere atto che la persona LGB non ha alcun disagio o malattia a causa del proprio orientamento sessuale (c’è ancora bisogno di ripeterlo?), e che è tenuto altresì ad essere informato circa la ricerca scientifica in questo campo in modo da prevenire errori di valutazione che potrebbero incidere negativamente sulla presa in carico e la cura del paziente.

Un ulteriore aspetto che mi sento di considerare è quello relativo al coming-out, ovvero al disvelare a terzi il proprio orientamento sessuale. Penso che questo passo non sia affatto un atto dovuto, ma un desiderio che il soggetto può o meno maturare nel corso del tempo,  una volta che saranno ben integrati i differenti aspetti della propria identità, ivi compresa quella sessuale, avendo elaborato anche l’omofobia interiorizzata, superando egli stesso i pregiudizi cui ahimè sono ancora sottoposte le persone LGB. In breve, la scelta di fare coming-out in famiglia, al lavoro o nel gruppo di amici, deve pertenere esclusivamente al paziente mentre il terapeuta dovrebbe a mio parere rimanere neutrale al riguardo, nella tutela del benessere psicologico del soggetto.

Come chi legge avrà notato, ho menzionato le persone lesbiche, gay e bisessuali, lasciando a parte quelle transgender e transessuali. Non si tratta naturalmente di una svista o dimenticanza, ma come anche l’APA ha riconosciuto nell’agosto del 2015 adottando specifiche linee guida per la consulenza e la terapia con le persone transgender (4), la T dell’acronimo merita un’attenzione a parte, considerate le complessità ulteriori sia a livello personale che medico-giuridico.

In conclusione, penso che una buona prassi che possa consolidarsi nella vita professionale dello psicologo, debba tenere in considerazione quanto suddetto, nel rispetto e valorizzazione di tutte le identità sessuali possibili.


Note al testo:

  1. Reperibili a questo link.
  2. Potete consultare il nostro articolo “Gli atteggiamenti degli Psicologi italiani verso l’omosessualità” come approfondimento sulla ricerca APO.
  3. Disponibile anche online in versione pdf.
  4. Le dichiarazioni dell’APA sono disponibili a questo link.

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