Il Ddl Cirinnà, approvato a Maggio di quest’anno, segna nel nostro Paese il primo passo in assoluto per il riconoscimento legislativo delle unioni omosessuali: un passo storico, senza dubbio, che finalmente ci allinea, seppur parzialmente, agli altri paesi – in ed extra Unione – a cui diamo per scontato di assomigliare per grado di civiltà, evoluzione e democrazia. Da più di un decennio la politica italiana cercava di dare una forma e uno statuto legislativi ad una realtà italiana fatta di tutta quella serie di persone, storie, affetti, progetti e impegni che, fino ad oggi, non potevano, letteralmente, avere una collocazione e un posto giuridici e, di conseguenza, simbolici. Come spesso accade ai primi tentativi, la Legge Cirinnà si accompagna anche a non poche perplessità e lacune che, pur non togliendo nulla alla storicità del passaggio, vale la pena di considerare in modo franco e critico. Uno degli elementi di maggiore dibattito, tanto nella comunità omosessuale quanto nel sentire comune del nostro paese, è stato la scelta di abolire, per le unioni civili omosessuali, il cosiddetto obbligo di fedeltà, allo scopo esplicito di differenziare tramite questo punto la forma giuridica dell’unione civile da quella del matrimonio.
Scopo di questo articolo è proprio quello di dialogare su questo punto, mantenendo sempre come sfondo trasversale il collegamento esistente tra il livello del riconoscimento giuridico e quello del riconoscimento sociale e soggettivo: in altre parole, vorrei che nel dialogare della scelta relativa all’obbligo di fedeltà, si tenesse sempre a mente che diritto e psicologia non sono affatto linee parallele, prive di punti in comune, ma che, anzi, costituiscono due ambiti che ricorsivamente esplicitano la loro influenza reciproca. Quello che non trova parola nella legge, non può trovare parola nel discorso sociale/psicologico, e viceversa.