Lesbiche: natura vs cultura

dott.ssa S. Salvaneschi

In questo articolo mi propongo di parlare della lettera L dell’acronimo LGBT, ovvero delle lesbiche, dando dapprima la definizione del termine, e procedendo poi sia da un punto di vista storico che da un punto di vista socio-culturale.

Si definisce lesbica (termine entrato nell’uso comune a partire solo dal secolo scorso) una donna con orientamento affettivo e sessuale nei confronti di un’altra donna. Le prime tracce storiche di donne omosessuali si possono riscontrare già nel 1700 a.C. nel Codice di Hammurabi, in cui compare la figura della salzikrum, una donna-uomo cui era consentito di sposarsi con un’altra donna ma, nel caso in cui avesse avuto figli (evento raro), avrebbe dovuto darli in adozione senza poterli successivamente reclamare (1). In precedenza, ovvero intorno al 2300 a.C., è possibile, secondo un’interpretazione della storiografa femminista Judy Grahn, che un altro amore lesbico avesse avuto luogo: si tratta di quello della sacerdotessa e poetessa Enheduanna (figlia del re di Accadia, Sargon) nei confronti di Inanna, Dea della fecondità (2).

Le notizie ulteriori che riguardano gli amori omosessuali femminili, ci provengono da un periodo storico di molto successivo, ovvero a partire dal secolo VII a.C., grazie alle testimonianze del mondo greco pervenute a noi tramite l’opera della poetessa greca Saffo. Mi sento qui di dover fare alcune specifiche: nell’antica cultura greca, gli amori omosessuali maschili, non solo erano accettati e riconosciuti, ma avevano anche un valore educativo di primaria importanza nella formazione culturale e civica dei cittadini maschi. Gli amori tra donne invece, pur essendo ammessi al pari degli altri, non avevano alcuna funzione socio-pedagogica culturalmente riconosciuta (3). Mi sembra utile a questo punto, sottolineare come, il termine lesbica che oggi conosciamo, non fosse utilizzato dai greci: essi impiegavano il termine tribade (aggiungere verbo e significato da cui proviene – tribein=sfregare – da controllare) che assunse successivamente una connotazione dispregiativa), per indicare le donne omo-attratte.

Ma se questo era il mondo greco, cosa sappiamo di quello romano? Le cose si profilavano ben diverse per un popolo votato alla conquista e all’annientamento (anche morale) dei nemici e a questo scopo educato. Anche in questo caso, la distinzione fra omosessualità maschile e femminile è necessaria. Ai tempi in cui visse Cicerone, gli amori omosessuali maschili erano accettati tra uomini adulti oppure tra classi sociali diverse: in altre parole, i rapporti definiti come “pederastia greca”, ovvero gli amori rivolti ai giovani ragazzi, erano proibiti, mentre erano possibili rapporti tra pari di età, o tra uomini nobili e schiavi (4). È possibile interpretare questo dato storico in quanto, per i romani, la virilità era un valore di massima importanza, per cui fin dalla tenera età, i maschi venivano educati alla sottomissione del prossimo, includendo quella sessuale (5).
Come veniva però considerata l’omosessualità femminile? In questo frangente, le differenze col mondo greco sono davvero notevoli. Intanto, occorre specificare che tutto ciò che si sa dell’omosessualità nel mondo romano, è visto attraverso gli occhi degli uomini, per delle specifiche norme che, ai tempi, regolavano il rapporto tra i generi. Infatti, partendo da una concezione di donna come essere pericoloso poiché incapace di darsi una regola, gli uomini ricorrevano a quelli che, oggi, definirei come atteggiamenti di controllo: le donne potevano partecipare alla vita pubblica (6) e venivano istruite perché fossero buone istitutrici per i propri figli, ma la loro partecipazione era prevista con un limite che era l’uomo a stabilire. In sostanza, le donne romane per poter mantenere una rispettabilità sociale, non potevano in alcun modo avere spazi di libertà personale, poiché in tal caso avrebbero perduto tutti i loro diritti e sarebbero cadute in uno stato di diffamazione ed emarginazione sociale. Le donne romane perciò, seppur avessero amato un’altra donna, non potevano permettersi di mostrarlo, dal momento che la loro eventuale omosessualità sarebbe stata vista come la peggiore depravazione femminile, contro natura e criminale (7).
Tale situazione di “doppia discriminazione” (in quanto donne in primis, e in quanto donne omosessuali) andò via via aggravandosi con l’avvento del cristianesimo, in cui ogni forma di omosessualità veniva proibita. In questo modo, nei secoli successivi, si ebbe poco a parlare dell’omosessualità – femminile in particolar modo: se già era impensabile ritenere che una donna potesse avere desideri sessuali, lo era a maggior ragione in relazione a persone dello stesso sesso. L’omosessualità quindi, pur continuando ad esistere, giaceva nascosta, per sfuggire a vere e proprie persecuzioni e pene che andavano dalla tortura alla combustione sul rogo. Di questi secoli bui restano vari documenti sia legislativi che ecclesiastici atti a regolamentare il comportamento umano in materia di sessualità (8).

Ciò che mi sembra importante mettere in evidenza ora è come, col passare dei secoli e con il succedersi di modelli culturali differenti, quel che era considerato anticamente come parte integrante dell’esperienza di vita degli esseri umani, è divenuto man mano oggetto di persecuzione e discriminazione, in quanto scemava l’importanza del fattore culturale a favore di una visione moralistica che non permise più uno spazio naturale che lasciasse emergere spontaneamente l’orientamento sessuale del singolo.
Ma se le culture imperanti in ogni epoca si ponevano in modo differente nei confronti dell’omosessualità, cosa ne diceva la scienza? I primi studi di carattere scientifico (per quanto i mezzi dell’epoca lo permettessero), furono compiuti a partire dal 1800 e ne troviamo traccia negli scritti di Kraft-Ebing (1866) e di Cesare Lombroso (1893): il primo considera l’omosessualità come una malattia di carattere organico, il secondo, che la affronta nell’opera La donna delinquente, la prostituta e la donna normale”, partendo da una discussione circa il pudore, osserva che alle origini dell’evoluzione il pudore è sconosciuto; la più grande libertà nei rapporti sessuali è la regola generale. Ne consegue che un atteggiamento pudico confermi un avvenuto sviluppo e adattamento alla società, mentre al contrario, se permangono forme di impudicizia della sessualità (e l’omosessualità è tra queste) per il Lombroso siamo di fronte a una persona disadattata, che ha mancato le tappe evolutive tipiche della sua specie. Lo studioso sostiene inoltre che l’omosessualità nella donna deriva dalla naturale inferiorità del genere femminile, più vicino alle origini della specie, e dunque al comportamento senza pudore che caratterizzava la vita sessuale originaria. Atavica per natura, la donna mostrerebbe un desiderio sessuale eccessivo che cerca sfogo in tutte le direzioni, compresa quella omosessuale.

In questo momento storico però, è evidente il passaggio di mentalità che permette la nascita di un approccio più scientifico alle tematiche relative all’orientamento sessuale: nonostante quello che a mio avviso fu un grande abbaglio per il Lombroso (comprensibile tuttavia per l’epoca in cui visse), egli diede dell’omoerotismo femminile una spiegazione antropologica e sociale e non più morale. Un ulteriore punto di vista, che poneva l’accento sulle differenze inter-genere, fu quello del sociologo Siegele: egli per primo fece distinzione tra le donne lesbiche definite come tribadi e quelle denominate saffiche. Le prime, secondo l’autore, erano quelle in cui si potevano osservare tratti somatici e comportamenti più apertamente di stampo maschile, mentre le seconde erano coloro che, molto lussuriose, erano disposte a ricevere gratificazioni sessuali sia da uomini che da donne (9). Certo, mi permetto di dire, le donne omosessuali ritratte da questi studi risultavano parecchio mortificate, come se oltre all’orientamento sessuale non ci fosse un essere umano con tanto di emozioni e sentimenti. In un periodo ancora successivo, ma non di molto (siamo nella prima metà del ‘900), la sessualità in generale fu oggetto di studio anche della psicoanalisi: Freud si occupò di omosessualità ma seguendo l’idea dominante dell’epoca che automaticamente dava maggior risalto al maschile, anche nelle sue declinazioni psicopatologiche (10). Intanto, da un punto di vista sociale, l’omosessualità femminile continuava ad essere considerata, al pari di quella maschile, come una perversione.

Solo negli anni ’70 del secolo scorso, come già descritto nell’articolo della collega (11), si arrivò a riconoscere l’omosessualità come un’espressione normale della sessualità umana. Ciò avvenne di pari passo con le prime lotte sociali intraprese da lesbiche e gay per il riconoscimento dei propri diritti civili e di libera espressione della sessualità. A dire il vero, il movimento femminista non combaciava in toto con quello delle lesbiche, per cui inizialmente si vennero a creare gruppi separati con intenti diversi, senza mancare però di utili collaborazioni (12). Occorre che faccia una precisazione: già sul finire del 1700, in diversi paesi europei, nacquero alcune organizzazioni femminili con lo scopo di ottenere gli stessi diritti politici e sociali degli uomini e la stessa visibilità pubblica. Una di queste figure di femminista antesignana fu la francese Olympe de Gourges che con la pubblicazione della “Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina” (1791), si fece portavoce della rivendicazione di diritti egualitari per donne e uomini. Contemporaneamente, in Inghilterra, Mary Wollstonecraft (1792), scrisse la “Rivendicazione dei diritti delle donne”, intuendo come il periodo di rinnovamento politico all’indomani della rivoluzione francese, potesse essere fruttifero per il conferimento di nuova dignità alla donna. I movimenti emancipativi composti da donne si diffusero poi anche negli Stati Uniti all’indomani dell’indipendenza ottenuta dalla madre patria a circa metà del 1800 e contemporaneamente anche in Italia, dove il discorso di rivendicazione femminista si intrecciava necessariamente con quello politico: le lotte femministe per tutta la seconda metà dell’800 avevano come intento quello di vedere riconosciuti alle donne il diritto al voto, all’istruzione e l’accesso al lavoro e agli impieghi che la società del tempo poteva offrire. Il femminismo moderno, di cui si può parlare dal secolo scorso ad oggi, si distinse dai primi movimenti femministi in quanto divenne inclusivo anche delle donne omosessuali: una “doppia discriminazione” portò quindi ad una doppia rivendicazione. Da quel momento, associazioni e gruppi di femministe e lesbiche, hanno portato avanti la “causa femminile”, ottenendo successi sempre maggiori nel campo sociale, politico e giuridico, laddove sembra che l’impresa più ardua sia comunque il far comprendere il valore dell’essere donna con la propria esperienza e il proprio sapere, in una società ancor oggi impregnata di un certo patriarcalismo. Dagli anni ’70 ad oggi, pur rimanendo attive molte realtà femministe, la comunione di intenti per l’ottenimento degli stessi diritti civili delle persone eterosessuali in merito a unioni e adozioni, ha favorito il raggruppamento delle persone lesbiche, gay, bisessuali e transessuali sotto l’egida dell’acronimo LGBT, a denotare l’esistenza di una vera e propria comunità di persone unite per il raggiungimento di uno stesso obiettivo.

Nella stesura di questo articolo mi sono imbattuta in una quantità di pubblicazioni inerenti il tema che qui ho trattato, che mi ha stupita, incuriosita e stimolata ad ulteriori approfondimenti. Considerata la vastità dell’argomento, quindi, ho ripercorso la storia dell’omosessualità femminile lungo i secoli, ma con l’intento di favorire una riflessione su come, nel cambiamento delle epoche storiche e delle idee predominanti in ciascuna di esse, le donne lesbiche siano state considerate, guardate, studiate in modalità molto differenti.


Note al testo:

  1. Tratto dal saggio di Nerina MIlletti “Brevissima storia delle lesbiche italiane”.
  2. Judy Grahn scrive la prefazione all’edizione americana del libro “Inanna, signora dal cuore immenso” della psicoanalista junghiana De Shon Meador.
  3. le donne si riunivano nei thiasoi in cui, oltre a ricevere un’educazione,  avevano riti e divinità proprie vivendo, prima del matrimonio, un’esperienza di vita analoga a quella degli uomini nei simposi. La cultura greca di questi secoli percepiva come normale l’amore tra donne nella vita dei thiasoi, e li formalizzava attraverso una celebrazione che stringeva due fanciulle in un legame esclusivo di tipo matrimoniale.
  4. I romani definivano questo aspetto della cultura greca, cioè la pederastia, come “vizio greco”.
  5. Per i dettagli dell’educazione e della concezione romana dell’omosessualità si vedano i testi in bibliografia.
  6. La partecipazione “guidata” alla vita pubblica aveva lo scopo di non far loro percepire di essere di fatto escluse dalle decisioni importanti che riguardavano la vita economica e sociale della città.
  7. Sia chiaro che esistevano donne omosessuali, le quali venivano però tacciate di ogni infamia.
  8. Alcuni esempi ne sono il Codex Justinianus, gli scritti di Sant’Antonino e Sant’Agostino.
  9. La terminologia di cui diversi autori si sono serviti per indicare le lesbiche è molto ben tratteggiata e specificata da Nerina Milletti; in bibliografia in Rivista di scienze sessuologiche.
  10. Ricordo che lo stesso Freud, comunque, esplicitò in una lettera del 1935, ad una madre che richiedeva di curare il proprio figlio omosessuale, che tale riconversione non aveva senso di esistere. Per ulteriori approfondimenti si invita a consultare questo link.
  11. Si veda articolo sul presente sito “La de-patologizzazione dell’omosessualità”.
  12. Per una panoramica storica si veda Nerina Milletti, 2007. “Donne fuori della norma”, in Nerina Milletti e Luisa Passerini (a cura di), Fuori della norma. Storie lesbiche nell’Italia della prima metà del Novecento, Torino: Rosenberg e Sellier, 2007, pp. 21-41.

Bibliografia:

  • Cantarella E. (2007), Secondo natura, Milano: Biblioteca Universale Rizzoli.
  • De Shong Meador B. (2009), Inanna, signora dal cuore immenso, Roma: Venexia editrice.
  • Krafft-Ebing R. (1895), Psycopathia sexualis, Parigi: Carrè.
  • Lombroso C., Ferrero G. (2009), La donna delinquente, la prostituta e la donna normale, da M. Gibson, N. Hahn Rafter, Milano.
  • Milletti N. (1966), Tribadi & socie:la sessualità femminile non conforme nei termini e nelle definizioni, in Rivista di scienze sessuologiche n 1-2, Del Cerro Editore.
  • Sighele S. (1892), Le coppie degenerate, in Archivio di psichiatria, scienze penali ed antropologia criminale, vol. XIII, fasc. 6, pp. 505-542.
  • Zimmerman B. (2000), Lesbian history and cultures: an encyclopedia, New York: Garland.

 

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